V per Tiziano: politicamente scorretto

V per Tiziano: politicamente scorretto

RUBRICA – DOSSIER

(a cura di Salvatore Setola)

Oggi un importante sito di salute medica californiano, Healthline, ci ha diffidato – se vogliamo essere degli educati liberali progressisti – dall’usare il termine “vagina” per designare quella sublime parte anatomica femminile che il grande pittore realista Gustave Courbet dipinse senza troppi fronzoli con il cosmogonico titolo di “L’origine del mondo” e che da queste parti viene chiamata – con una creatività fonetica senza eguali – “pucchiacca“.

La motivazione addotta da Healthline è che il termine “vagina” – peraltro tanto caro proprio alla tradizione femminista –  sarebbe espressione di un linguaggio non inclusivo, che non tiene dunque conto di come <<le persone transessuali non si identifichino con le etichette che la comunità medica attribuisce ai loro genitali>>.

Ecco, il guaio del “politicamente corretto” è che per sensibilizzare su questioni di assoluta importanza, quali la lotta alle discriminazioni sessuali e di genere, arrivi a imbrigliare il linguaggio, a banalizzarlo, appiattirlo su suggerimenti freddi, asettici ed esteticamente brutti. Perché “buco anteriore“, proposto in luogo del termine proibito, è la tomba della sensualità e dell’anatomia.

Un processo di censura e deprivazione che torna a colpire il lessico, la ricchezza terminologica del linguaggio verbale, dopo aver nei mesi scorsi sbarrato lo spioncino delle sale museali a chi voleva ammirare i capolavori di quei sessisti beceri di Schiele, Waterhouse e Balthus. Al centro di simili scempi c’è quest’equivoco tutto occidentale, tutto perbenista, che il museo debba essere un luogo di educazione ai valori civici, morali e sociali quando invece le opere che in esso sono custodite non fanno altro che insidiarli, quei valori.

Prendiamo la “Venere di Urbino” degli Uffizi, dipinta da quel vecchio porco di Tiziano su commissione di quell’altro depravato pederasta di Guidobaldo II della Rovere. Il duca di Urbino nel 1534, all’età di vent’anni, aveva sposato Giulia da Varano, che di anni all’epoca ne aveva undici. Quattro anni dopo, nella fase dello sviluppo adolescenziale durante la quale la sua sposa bambina si stava trasformando in una avvenente signorina, Guidobaldo commissionò a Tiziano una ritratto di una Venere ammiccante da tenere in camera da letto con la precisa funzione di disinibire sessualmente la sua inesperta consorte. C’è da dire che il gran pezzo del Guidobaldo scelse bene: in quanto a invitanti donnine nude il Veccellio era meglio di Playboy. Prese a modello la virginale Venere dormiente di Giorgione, la piazzò in un ambiente domestico di grande intimità, la svegliò dal torpore ormonale facendola guardare vogliosa dritto negli occhi dello spettatore e rese piuttosto birichina la mano che di solito copre il “buco anteriore” delle veneri dipinte.

Se ne ricorderà qualche secolo dopo Manet, che userà la Venere di Urbino come modello della sua Olympia, anche lei stesa sul letto ma stavolta fiera, strafottente, glaciale, lupa che non attende di essere posseduta da nessun maschio: è lei quella che possiede.   

Dovremmo ricordarcene anche noi quando, riguardo ai musei, accendiamo sterili polemiche di carattere amministrativo su se sia giusto non pagare il biglietto la prima domenica del mese, laddove il punto della questione è a monte, ben più profondo: davvero il museo è una specie di scuola in cui la carica dirompente dell’arte è detonata? Si abbia il coraggio di mostrare ai giovani che la grande arte non ha un cazzo di pedagogico, di moralistico, e anzi di sbattergli in faccia che spesso i grandi maestri sono amorali, fondamentalmente stronzi e diseducativi, magari chissà qualche museo inizierà a riempirsi meglio di un bordello.

© Testo di Salvatore Setola
In copertina: Venere di Urbino di Tiziano – (se si condivide l’articolo indicare le fonti)

Centro Studi Normanni

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