L’arte pedagogica di Hans Bellmer
RUBRICA – DOSSIER
Un artista come Hans Bellmer, che poco meno di un secolo fa riscuoteva consensi tra i circoli d’avanguardia surrealisti, nel clima di oggi sarebbe considerato sicuramente un artista da boicottare e censurare, perché – immagino già le motivazioni degli articoli dei giornali progressisti e femministi – le sue bambole istigherebbero alla violenza sulle donne, rappresenterebbero il corpo femminile come oggetto di sfogo di desideri indicibili. Che è esattamente ciò che Bellmer – invaghito di una cugina che mai si sarebbe concessa – sublimò in forma di rappresentazione. Nella Sacra finzione dell’Arte.
Non si mise certo a stalkerare la ragazza che bramava ma creò delle sculture aventi soltanto quelle membra femminili più voluttuose, riducendo la totalità della donna a un assemblaggio di sineddochi erotiche. La donna oggetto, la bambola sessuale, l’ha inventata lui.
C’è qualcosa di edificante in tutto questo? No, e non deve esserci. Bellmer non faceva l’educanda, ma l’artista. Non doveva trasmettere valori, doveva metterli in crisi. E i valori estetici vigenti nel contesto storico e geopolitico in cui lui viveva erano quelli della razza ariana, dei superuomini e delle superdonne alte, bionde, perfette. Bellmer, che mai si piegò all’arte di stato nazista pagando il prezzo della propria carriera, smontava letteralmente la corporeità ariana, il suo culto, facendone carne da macello.
Un’arte pedagogica è quanto di più sciagurato si possa pretendere, il modo più efficace per disinnescare la vera funzione dell’arte: guardare in faccia la nostra umanità. Con le sue dolcezze, le sue miserie, le sue mostruosità. Negare questo portato, in nome di battaglie culturali sicuramente giuste, significa avere un’idea nazista della bellezza e dell’arte.
© Testo di Salvatore Setola
In copertina: Foto di Hans Bellmer – (se si condivide l’articolo indicare le fonti)