Michelangelo: la tragedia bellissima e straziante di essere fatti di carne e ossa
RUBRICA – DOSSIER
Nel Rinascimento la sfida era tra Raffaello e Michelangelo. La sfida è sempre – sempre nella vita – tra Raffaello e Michelangelo. E io sto dalla parte di Michelangelo.
Raffaello ha portato all’apice l’estetica della propria epoca, la perfezione formale come viatico per la bellezza ideale e la bellezza ideale come sola possibilità di manifestazione del Divino. Michelangelo, quell’apice, l’ha polverizzato. Mentre Pietro Bembo catechizzava i letterati – e di riflesso i pittori – sulla necessità di imitare i classici, Michelangelo puntava disperatamente, eroicamente, tutte le sue “fiches” sull’invenzione di modelli inediti di raffigurazione del corpo umano, coniando un campionario di forzature di membra e muscoli che i manieristi considereranno dogma.
Raffaello era il “cocco” di Leone X, integrato perfettamente nell’establishment vaticano di inizio Cinquecento tra mire vanagloriose, festini esclusivi e puttane. Michelangelo, invece, fece letteralmente ammattire Giulio II e i suoi successori, costretti a rincorrerlo per assicurarsi i suoi esosi servigi. Era solitario, quasi ascetico ma capace di infiammarsi di un mal d’amore bisessuale, ricchissimo e tuttavia morigerato al limite della trasandatezza.
Soprattutto, Michelangelo è colui che forse per primo ha emancipato la figura dell’artista dal pregiudizio della manualità, dimostrando che pittura e scultura sono affare dell’intelletto, “arte concettuale” diremmo oggi. E il concetto, nell’arte di Michelangelo, è uno solo ancorché incommensurabile: il ruolo del corpo nel processo di salvezza umana. I muscoli come gabbia, la potenza delle masse e dei volumi come attestazione terribile del nostro essere finiti. La tragedia, bellissima e straziante, di essere fatti di carne e ossa. La tragedia a cui solo la scultura può porre rimedio, arte del togliere superiore, secondo Michelangelo, alla pittura che all’opposto procede per aggiunta. Per questo la sua pittura è “scultorea”, per questo la sua scultura è spesso “non finita”, con parti lasciate a uno stato grezzo, brado. A me piace pensare che, come il filosofo Anassimandro, il non finito di Michelangelo voglia dirci che la più grande ingiustizia è stata separarsi dal caos primordiale, dall’infinito, e che per porre rimedio occorra ricongiungersi a quell’infinito. Che è non-finito, tensione spirituale, filosofica, mistica. Tensione dei corpi oltre il corpo.
Non c’è dubbio, io sto dalla parte di Michelangelo. Sto dalla parte dell’infinito.
© Testo di Salvatore Setola
In copertina: Carboncino di studio eseguito da Michelangelo – (se si condivide l’articolo indicare le fonti).