Paolo Veronese, pittore manierista ma anche primo artista concettuale

Paolo Veronese, pittore manierista ma anche primo artista concettuale

RUBRICA – DOSSIER

(a cura di Salvatore Setola)

Marcel Duchamp è il mio spirito guida, tuttavia il primo artista concettuale della storia per me è stato il Veronese, che a Cinquecento inoltrato fu costretto a usare puri stratagemmi dell’intelletto per modificare un suo grandioso dipinto. Era il 1573 e i domenicani del convento dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia gli avevano commissionato una tela raffigurante “L’Ultima Cena” per sostituirne un’altra di Tiziano, rimasta irreparabilmente coinvolta in un incendio di pochi anni prima.

Veronese era un pittore manierista e, come tutti i pittori manieristi, amava complicarsi la vita con sofisticate soluzioni formali e compositive. Nel suo caso, gli piaceva fare le cose in grande affollando personaggi sfarzosamente abbigliati sotto architetture sontuose. Così pensò bene di vivacizzare la solenne sobrietà delle tradizionali iconografie dell’ultima cena trasformandola in una specie di festino di corte a cui partecipano i personaggi più variegati e bizzarri: un falconiere, un uomo che si stuzzica i denti con una forchetta, un inserviente che cerca di tamponarsi un’emorragia dal naso, due guardie tedesche che fanno uno spuntino, un giullare nano ubriaco e un po’ di animali domestici sparsi.

In pieno clima controriformato, una scena simile non poteva sfuggire al vaglio censorio dell’Inquisizione locale per cui, nel Luglio del 1573, il pittore fu convocato in tribunale a rispondere dell’accusa di dileggio alla santa eucarestia per aver raffigurato personaggi impropri che non si confacevano alla sacralità del tema.

Agli inquisitori che lo incalzavano con le loro domande, Veronese si giustificò appellandosi alla libertà dell’artista di derogare dalla norme <<noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti>> e alla libertà creativa <<se nel quadro li avanza spazio io l’adorno di figure, secondo le invenzioni>>, lezioni che oggi dovrebbero ripassare i nuovi inquisitori per un’arte politicamente corretta.

Alla fine Veronese se la cavò con un’ingiunzione del tribunale a modificare il dipinto a proprie spese: aveva tre mesi di tempo per rimettere l’immagine entro i binari del buon gusto artistico e del decoro morale. In quei tre mesi, però, Veronese tutto fece tranne che avvicinare pennelli e colori alla sua opera, che ormai considerava già bella che pronta, risolvendo la questione con uno spostamento di significato. Al tribunale comunicò che il suo dipinto non rappresentava più un’Ultima Cena bensì un’altra scena evangelica dal carattere molto più profano: il Convito a casa di Levi.

Tramite un’operazione squisitamente concettuale – che secoli dopo Duchamp avrebbe definito <<creare un pensiero nuovo per un oggetto già esistente>> – Veronese si salvò dalla censura. E ci dimostrò ben prima del genio di Duchamp e dei suoi epigoni degli ultimi trent’anni (loro sì dei “manieristi” della peggior specie) che la pittura e l’arte, anche laddove sia presente una tecnica esecutoria sopraffina, sono affari dell’intelletto.

© Testo di Salvatore Setola
In copertina: Convito in casa di Levi di Paolo Veronese – (se si condivide l’articolo indicare le fonti).

Centro Studi Normanni

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